Tecniche geoingegneristiche: cosa sono e a cosa servono
“Tecniche geoingegneristiche: cosa sono e a cosa servono” è il nuovo articolo frutto della collaborazione tra l’Area Valorizzazione e Impatto della Ricerca e Public Engagement – Agorà Scienza – e dal Green Office UniToGO dell’Università di Torino con la IdeeGreen S.r.l. Società Benefit.
L’articolo riprende i testi del prof. Bagliani e del dott. Tommaso Orusa pubblicati nell’opera “Lessico e Nuvole: le parole del cambiamento climatico”, la seconda edizione della guida linguistica e scientifica per orientarsi nelle più urgenti questioni relative al riscaldamento globale, curata dall’Area e dal Green Office.
La versione gratuita di Lessico e Nuvole, sotto forma di file in formato .pdf, è scaricabile dalla piattaforma zenodo.org.
La versione cartacea e l’eBook sono acquistabili online sulle seguenti piattaforme di distribuzione:
– Amazon
– Mondadori (anche con Carta del Docente e 18app)
– IBS
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Tutto il ricavato delle versioni a pagamento sarà utilizzato dall’Università di Torino per finanziare progetti di ricerca e di public engagement sui temi dei cambiamenti climatici e della sostenibilità.
La geoingegneria
La geoingegneria comprende una serie di tecniche atte a influenzare in maniera diretta o indiretta un driver e/o relativi feedback (retroazioni) di un dato comprato ambientale a diversa scala spaziale e temporale che può essere locale, regionale o planetaria.
Tecniche geoingegneristiche: cosa sono
Molte tecniche geoingegneristiche sono oggetto a tutt’oggi di profondo studio e discussione all’interno della comunità scientifica e riguardano ambiti molto variegati (clima, acqua, ciclo del carbonio, irraggiamento solare, ecc.), tra loro comunque tutti legati.
Per esempio, gestire la radiazione solare significa schermare in qualche modo i raggi solari lungo tutte le lunghezze d’onda che arrivano sulla Terra. Per far questo si può agire o sulla superficie o nella troposfera, o nell’alta atmosfera o, infine, direttamente nello spazio fra il pianeta Terra e il Sole.
Sulla superficie terrestre, è possibile prima di tutto cercare di aumentare l’albedo e quindi la percentuale di radiazione solare che viene riflessa invece di essere assorbita sotto forma di calore.
Per esempio le strade asfaltate riflettono solo dal 3 al 20% dei raggi solari che le colpiscono, assorbendo tutto il resto della luce ricevuta determinando così il fenomeno isola di calore sulle città.
Se una strada (o anche una casa o una installazione industriale) fosse dipinta di bianco (o con vegetazione e materiali ad alta riflettività) tale fenomeno tipicamente urbano potrebbe essere fortemente attenuato.
A oggi sono stati sviluppati pigmenti colorati che riflettono la maggior parte della radiazione solare pur permettendoci di vivere in un mondo a colori (che è un fenomeno di pura percezione).
Nei Laboratori Berkeley hanno sviluppato vari pigmenti, fra i quali uno rosso rubino, in grado di riflettere efficacemente la luce. Già gli antichi egizi usavano un pigmento di colore azzurro sugli edifici (costituito da tetrasilicato di calcio e di rame che assorbe la luce visibile ma la disperde riemettendola come radiazione infrarossa in modo estremamente efficiente lasciando fresca l’anfora – o la casa – che ricopre) per ridurre il riscaldamento.
Geoingegneria idraulica
In merito alla geoingegneria idraulica, ai fini di contenere l’acidificazione degli oceani e lo sbiancamento dei coralli vi sono già progetti in atto a livello locale che prevedono la dispersione di calce (carbonato di calcio) nelle acque marine per tamponare il pH.
Per aumentare l’albedo dell’intero Pianeta si sta anche ipotizzando di agire sugli oceani, disperdendovi sostanze galleggianti altamente riflettenti, ritenute a livello puramente teorico, e non pratico, stabili ed innocue per la fauna e per la flora marina.
Altri approcci geo-ingegneristici solari, a livello agricolo, prevedono anche di modificare geneticamente le principali colture, come frumento e riso, mais e soia, oppure selezionando varietà apposite o, più semplicemente, favorendo politiche di cambio della dieta e passare alla coltivazione intensiva di colture di colore più chiaro. Questo sistema permetterebbe, secondo alcuni studi molto discussi, di diminuire la temperatura della superficie anche di 1 °C e sarebbero relativamente rapidi da implementare. Si tratterebbe, di passare dalla semina delle colture tradizionali a quella delle colture ad alto albedo; ma potrebbe comportare problemi alimentari e sociali non secondari dovuti al cambio di dieta e anche al dibattito relativo alle piante geneticamente modificate.
Salendo alla troposfera, lo strato di atmosfera più vicino alla superficie, si studia come spruzzare goccioline d’acqua sopra gli oceani in modo da creare nubi artificiali che, con il loro biancore, riflettano la luce prima che colpisca le acque sottostanti, per loro natura più scure e quindi più efficaci nell’assorbimento dei raggi solari.
Ancora più in alto, nella stratosfera, si potrebbe attuare un’altra strategia, anche in questo caso ispirata a un fenomeno naturale. L’idea sarebbe di lanciare polveri di solfuri in atmosfera usando razzi o aerei per creare nuvole in grado, si stima, di eliminare con un solo kg di solfuri l’effetto riscaldante di diverse migliaia di tonnellate di CO2. Tuttavia anche in queste soluzioni teoriche studiate al MIT di Boston vi sono problemi: i moti convettivi dominanti tenderebbero a fare migrare gli aerosol verso i tropici, raffreddandoli, ma a spese delle zone polari, dove proseguirebbe la fusione della calotta polare.
Inoltre, se le correnti in quota dovessero trasportare questi aerosol a base di solfuri verso i poli, questi finirebbero per danneggiare lo strato di ozono che funge da schermo nei confronti dei raggi ultravioletti. Per non parlare poi dei feedback agli ecosistemi terrestri (in particolare forestali): come reagirebbero foreste, colture, animali alla lenta ricaduta in mare e sul terreno di questo eccesso di solfuri? Risposte che richiedono certamente studi scientifici empirici ad oggi molto circoscritti se non addirittura assenti.
Geoingegneria solare spaziale
La geoingegneria solare spaziale propone in via teorica di schermare o e filtrare parte della radiazione solare incidente (sebbene ad oggi si tratti più di mere ipotesi). Il primo problema da risolvere appare infatti dove piazzare un “ombrellone spaziale” che rimanga a orbitare proprio fra la Terra e il Sole. L’unico luogo possibile è quello che gli astronomi chiamano il punto lagrangiano L1: si trova proprio fra il Sole e la Terra a 1,5 milioni di km dal nostro pianeta. Solo in questo punto le forze gravitazionali prodotte dai due corpi e la forza centripeta orbitale si equilibrano esattamente. Trovato il posto giusto per collocare tale “ombrellone”, il secondo problema è come portarvelo. La soluzione teoricamente più fattibile è quella di non utilizzare un solo gigantesco ombrellone, che oltretutto sconvolgerebbe il ciclo del giorno e della notte per tutti gli esseri viventi, ma di usarne tanti molto più piccoli e facilmente trasportabili.
La NASA in questi anni ha già realizzato un prototipo: un disco di appena 60 cm di diametro, dello spessore di 5 micrometri e del peso di circa un grammo. L’idea sarebbe di produrne 16 milioni di miliardi, con un peso totale di circa 20 milioni di tonnellate e portarli nel punto L1. Se per vent’anni, ogni giorno, lanciassimo un razzo da 100 tonnellate di carico utile, sarebbe possibile formare una nuvola di dischi di 3,8 milioni di km2 che complessivamente bloccherebbero circa il 2% della radiazione solare che colpisce la Terra senza, teoricamente, particolari conseguenze sugli ecosistemi. Unico problema la fattibilità economica oltre naturalmente al tempo e alla disponibilità di materia prima e la relativa perdita finendo nello spazio.
Secondo la NASA si tratterebbe secondo una stima prudenziale di circa 130 mila miliardi di dollari. Pari a poco più di 17.000 euro a testa per ogni abitante del pianeta. Una soluzione alternativa, del tutto ipotetica ovviamente, è quella di una gigantesca lente di Fresnel da montare in orbita del diametro di 1000 km e dello spessore di pochi millimetri piazzata in L1. Secondo calcoli della NASA si potrebbe deviare nello spazio l’1% dei raggi solari. In questo caso, le spese complessive sarebbero di 20 mila miliardi di dollari.
Sempre ipotetica la soluzione proposta da una ricerca dell’Università di Strathclyde in Scozia di deviare l’orbita di un asteroide in transito vicino alla Terra e collocarlo in L1. La sua massa attrarrebbe in quella zona polvere cosmica a sufficienza per schermare significativamente la luce del Sole. Se si riuscisse a deviare l’orbita dell’asteroide 1036 Ganymed (30 km di diametro, da non confondere con Ganimede, il satellite di Giove) le polveri che raccoglierebbe questo asteroide ricollocato sarebbero sufficienti per schermare il 6,58% della radiazione. Ad oggi gran parte delle soluzioni propugnate appaiono non traducibili nella pratica e scientificamente controverse o impraticabili, poiché accompagnate da un eccessivo grado di incertezze relative ai possibili effetti e/o troppo costose.
Certamente lo studio di tecnologie per sottrarre la CO2 in eccesso o altre soluzioni geo-ingegneristiche a scala locale appaiono a tutt’oggi ampiamente studiate, perché più fattibili, senza gradi di incertezza, e meno al centro di un forte dibattito sia scientifico sia sociale sulle loro possibili applicazioni.
dott. Tommaso Orusa, Gruppo Energia e Coordinamento Cambiamenti Climatici UniTo Green Office UniToGO; Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari – Università di Torino
Bibliografia
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