Obsolescenza programmata. Ossia la fine degli oggetti decisa dal costruttore. In grandi linee il fenomeno lo abbiamo descritto nel primo articolo dove abbiamo spiegato in termini generali i due generi d’obsolescenza programmata: quella tecnologica e quella psicologica. Ora scendiamo nel concreto, prendendo in esame l’obsolescenza programmata di tre oggetti d’utilizzo comune: le lampadine, gli smartphone e le stampanti.
Obsolescenza programmata: lampadine
Incominciamo con le lampadine. Oggi per illuminare la nostra casa abbiamo tre alternative: le lampadine alogene, quella a a fluorescenza compatte (CFL) e quelle a Led. Le vecchie lampadine a filamento, quelle che furono oggetto di un accordo di cartello nel 1924, per accorciarne la vita utile, non sono più in commercio dal 2012 perché messe al bando dall’Unione Europa a causa della loro inefficienza. Il 90% dell’energia elettrica infatti veniva convertita in calore. Rimangono, quindi, le lampadine alogene, le lampadine a fluorescenza compatte (CFL) e quelle a Led. Si tratta di prodotti che hanno una storia industriale breve e per questa ragione è complicato sapere se la loro durata è “programmata”, come è successo a quelle a filamento.
Le alogene saranno messe al bando dall’Unione Europea a partire dal 2018, perché hanno ancora un costo energetico elevato, anche se consumano la metà dell’energia delle vecchie lampadine a filamento, mentre le CFL sono in dirittura d’arrivo perché, rispetto ai Led consumano parecchio e hanno dei costi di produzione industriale elevati. Le CFL però sono a obsolescenza programmata sospetta perché la loro vita non è legata alla durata in esercizio, ma ai cicli d’accensione e spegnimento. Che sono circa 6.000. Se tutti questi cicli vi sembrano molti non credeteci. In un bagno, per esempio, è molto semplice, entrarvi dieci volte al giorno. Risultato la vostra lampadina CLF durerà meno di due anni, indipendentemente dal tempo d’accensione. Per questa ragione il consiglio è di spostare queste lampadine nei locali dove non s’accende e spegne continuamente la luce, come bagni e corridoi.
Il passaggio tra una tecnologia e l’altra delle lampadine sembra aver levato lo scettro dell’obsolescenza programmata a questi dispositivi. Vediamo i numeri. Per fornire 20 milioni di Lumen/ora (valore della luce prodotta da una lampadina da 900 Lumen accesa per circa tre anni di seguito), servono, nel tempo, 22 lampadine a filamento che consumano 60 Watt e forniscono 900 Lumen e che hanno un tempo di vita di 1.000 ore ognuna. La situazione migliora con le CFL. Ne servono 3 che consumano 15 Watt, forniscono 900 Lumen e hanno un tempo di vita di 8.500 ore ognuna. Con i Led è la rivoluzione. Ne basta uno che consuma 12,5 Watt, fornisce 900 Lumen e dura, tenetevi forte 25.000 ore. E la fonte dei dati è affidabile visto che si tratta del Dipartimento dell’energia degli Stati Uniti. Traduciamo il tutto in ciò che più interessa le persone: la spesa.
Le ultime lampade a filamento da 900 Lumen rimaste oggi – provengono da magazzini – costano circa un euro l’una, ne servono 22 per cui siamo a 22 euro e in tre anni consumano 1575 kW/h pari a 299,2 euro. Totale 321,2 euro.
Ora passiamo alle lampade CLF. Una lampadina di questo tipo da 900 Lumen costa circa sei euro, ne servono tre, per cui arriviamo a 18 euro e in tre anni consumano 394,4 kW/h pari 74,8 euro. Totale 92,8 euro.
E infine i Led. Una lampadina Led da 900 Lumen costa circa sei euro, ne serve una, per cui sempre sei euro rimangono e in tre anni consuma 327 kW/h pari a 62,1 euro. Totale 67,1 euro.
Insomma il progresso tecnico e l’innovazione hanno prodotto obsolescenza si, ma per i produttori di lampadine e per i distributori d’energia elettrica. Vedremo nel tempo, se i costruttori di lampadine non faranno un altro cartello per abbassare la durata dei Led, mentre per i distributori d’elettricità non c’è speranza. I consumi, e le emissioni di CO2, sono destinati a calare. E infatti i più intelligenti stanno lavorando su altri servizi, come la connessione tra il vostro smartphone e lavatrice di casa.
Obsolescenza programmata: smartphone
Bene e ora parliamo degli smartphone che sono, con i loro “antenati” ossia i telefoni cellulari tra gli oggetti più soggetti a obsolescenza programmata, sia tecnologica, sia psicologica. Per fortuna l’Unione Europea da qualche anno ha deciso che tutti i telefoni debbano essere caricati con lo stesso attacco, cosa che permette di alimentare uno smartphone di una marca con il caricabatterie di un altro. Solo un’azienda non ha accettato l’invito dell’Unione Europa e prosegue con cavi e attacchi proprietari, che sono a rischio obsolescenza programmata, perché basta che l’azienda smetta di produrli o cambi attacco in futuro. Per inciso si tratta di un cavo che costa 2,8 euro alla produzione, sette al consumatore se acquistato “da parti terze” e 25 euro se “originale”. Si tratta di un discorso che deve essere seguito anche per altre parti del telefono, come schede di memoria aggiuntive, auricolari e batterie. E su queste ultime c’è da fare un discorso particolare. Alcune batterie, infatti, sono dotate di un chip interno che consente al telefono di “riconoscere” la propria batteria “originale”. Tradotto: se non si trova la batteria originale e la si vuole sostituire con una commerciale, il telefono potrebbe non riconoscerla. Insomma uno smartphone può diventare un rifiuto, nonostante funzioni perfettamente a causa di un cavo o di una batteria. La regola aurea, quindi, è quella di prestare molta cura alla massima compatibilità. Un prodotto tecnologico non è “un’opera d’arte” e la presunta unicità si paga.
Altro discorso, per quanto riguarda gli smartphone, è quello dei materiali. In linea di massima è da preferire il metallo, rispetto alle plastiche che però sono sempre più diffuse e non appartengono, di sicuro, alla famiglia dei polimeri tecnici di grande resistenza, con i quali si fanno, oggi anche parti dei motori dei camion come la coppa dell’olio. Certo testare la resistenza, e la colorazione, delle plastiche del nostro futuro smartphone è complicato, ma in questo caso viene in aiuto la rete, Amazon compresa, e diventa possibile spulciare tra i commenti che giudicano un prodotto. E magari fare le ricerca in inglese, visto che i consumatori anglosassoni non perdonano comportamenti scorretti e usano, spesso, la rete per mettere in evidenza i difetti dei prodotti.
E poi c’è l’obsolescenza programmata psicologica, che induce, spesso, a “un’ansia da prestazioni”. Se il vostro smartphone, con un anno di vita, ha 16 gigabyte di memoria e una fotocamera da 8 megapixel, con lo zoom 3X, non è detto che sia da buttare via perché è appena è appena uscito il suo successore con 32 gigabyte di memoria, la fotocamera da 12 megapixel, con lo zoom 5X, del quale siete a conoscenza a causa del marketing massacrante.
Calma, respirate, contate fino a dieci e fatevi qualche domanda, del tipo:
1) Ho riempito la memoria da 16 giga?
2) Posso metterci una scheda d’espansione microSD?
3) Posso cancellare qualcosa?
4) Ho mai stampato una fotografia fatta con il mio smartphone che sia venuta male per la bassa risoluzione di 8 megapixel?
5) Faccio mai foto a soggetti così lontani che mi serve un zoom 5X?
Se vi siete dati come sequenza di risposta: NO-SI-SI-NO-NO, non avete bisogno di un nuovo telefono e di sicuro vi passerà “l’ansia da prestazioni”, cosa che vi permetterà d’investire il vostro denaro in qualcosa di unico, come un viaggio della durata di un week end. Certo se fosse andato avanti il progetto dello smartphone modulare Ara, avreste potuto cambiare solo la fotocamera o la memoria interna. Ma il progetto è stato dismesso nel 2016 dai suoi stessi promotori. Forse ha fatto paura il fatto che il “modello base” avesse un prezzo di soli 47 dollari. Comunque una foto stampata 10X15 centimetri è ottima anche con “solo” 8 Megapixel, una scheda micro SD da 32 giga – meglio abbondare – costa circa 17 euro e ingrandire altri 2X una foto con il programma di fotoritocco, magari gratuito e in rete ce ne sono, partendo da 8 megapixel non vi farà perdere nulla sulla stampa 10X15.
Obsolescenza programmata: stampanti
E ora passiamo a un oggetto domestico di cui ci si ricorda solo in due casi, quando lo si usa e quando si rompe: la stampante per computer. Si tratta, la stampante, di un prodotto che è stato oggetto di raffinati studi, da parte dei produttori, per l’obsolescenza programmata, per una serie caratteristiche. La prima è la dipendenza, dalle cartucce, che sono spesso costose, non ricaricabili, e magari hanno una scadenza.
Andiamo con ordine: il costo. Spesso il costo di una cartuccia per una stampante è di poco inferiore, nel caso delle laser semplici, a quello dell’intera stampante nuova, compresa la cartuccia in dotazione che però spesso ha un contenuto di toner, inferiore alla media.
E spesso il consumo del toner è programmato direttamente in fabbrica. Complice un chip integrato nelle cartucce, infatti, alcune stampanti vanno in blocco per “esaurimento inchiostro/toner” perché il numero di copie è programmato e la stampante non si blocca quando la cartuccia è effettivamente terminate.
In questa maniera si “costringe” l’utente a cambiare cartucce che magari potrebbero stampare ancora per lungo tempo. Il consumo d’inchiostro/toner, infatti, dipende dalla densità di colore che possiedono le stampe e non al numero di copie.
I chip sono installati anche in altre parti di consumo delle stampanti, come il tamburo di trascinamento, quando è separato dalla cartuccia del toner, e che anche in questo caso le bloccano fino a quando non le si porta in assistenza per una riparazione, o lo si cambia da soli, cosa possibile su alcuni modelli. Il fatto è che spesso è una manutenzione non ancora necessaria. E che ha un prezzo elevato. Chiaro che molti utenti preferiscono cambiare la stampante, a un costo di 130 euro, parliamo di una laser colori, anziché farla riparare, oppure sostituire da se un pezzo, il tamburo, che solo come ricambio costa circa 90 euro. Ed ecco che così la stampante finisce in discarica. Funzionante, riparabile ma obsoleta.
Per non parlare delle cartucce che vanno cambiate in blocco anziché poter essere ricaricate di toner, come succede sulle fotocopiatrici professionali. Stesso discorso, si rende obsoleta tutta la cartuccia, che magari ha il tamburo integrato, anziché rendere possibile la ricarica. Eppure c’è chi la fa la ricarica. Sul mercato, infatti, è possibile trovare cartucce ricondizionate e ricaricate o in alternativa la si può ricaricare da soli, spendendo circa 5 euro per il toner e altrettanti per l’alcool isopropilico necessario alla pulizia della cartuccia. Per le istruzioni, che cambiano da una stampante all’altra, è sufficiente una ricerca su Google e sarà difficile non trovare un tutorial video per la propria stampante.
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A cura di Sergio Ferraris