Obsolescenza programmata. Un concetto semplice, ma non troppo evidente, con il quale si usa il termine “programmato” per la vita utile di un oggetto che in realtà dovrebbe essere determinata dall’usura, ossia dall’uso. Una “qualità” che è divenuta intrinseca alla produzione industriale e che non si può capire se non si guarda a come si producono le cose da oltre un secolo. Semplice.
Nella società prima del ‘900 le cose, gli oggetti, non potevano possedere un’obsolescenza programmata perché erano prodotte quasi in pezzi unici, in maniera semi-artigianale, e il produttore di solito aveva un rapporto di fiducia con il consumatore. Un poco per la cultura produttiva dell’artigiano, un poco per il rapporto diretto con il consumatore la produzione di questi oggetti, anche perché il grosso del valore era rappresentato dal lavoro e non dalla materia prima, erano realizzati per durare, sia nella logica delle cose, sia per l’utilizzo abbondante del materiale.
L’alba dell’obsolescenza programmata
Ed è una logica che è stata seguita anche nella prima fase dell’industrialismo moderno, l’epoca della produzione di massa, a cavallo tra ‘800 e il ‘900 durante la quale si sono cominciati a diffondere nella società oggetti dei quali non ci accorgiamo nemmeno più per quanto sono ormai comuni, come le lampadine, i frigoriferi, le cerniere lampo e le autovetture. Materiali robusti, buona fabbricazione e progettazione ottimale sono state le qualità della prima fase dell’industria, che contava sulla qualità come leva di mercato.
Ma durò poco. Già negli anni ’20 del secolo scorso, infatti, le imprese si accorsero che i peggiori concorrenti della loro attività erano i loro stessi prodotti che “duravano troppo” in uno scenario nel quale le fabbriche erano in grado di produrre sempre più oggetti, riducendo la quantità di lavoro umano, che è un costo, per ogni cosa fabbricata.
In pratica il fatto che le persone possedessero già un oggetto duraturo era il principale ostacolo alla crescita dei fatturati. E il mondo delle imprese pose rimedio a ciò, nel 1924. In quell’anno, infatti, i produttori di lampadine crearono il Cartello Phobos che fissò, tra le altre cose come la standardizzazione degli attacchi, della potenza e della luminosità, ma soprattutto fissò la durata “ideale” – per le industrie e non per il consumatore – delle lampadine a 1.000 ore, quando già si arrivava facilmente a produrne della durata di 2.500.
Si è trattato del primo caso documentato di obsolescenza programmata, smentito anche tecnicamente visto che una lampadina, fatta per durare, è tutt’ora accesa dal 1901: la “Centennial Light” che si trova nella stazione dei vigili del fuoco a Livermore-Pleasanton in California.
Negli anni successivi si teorizzò che l’obsolescenza programmata potesse essere una soluzione per uscire dalla crisi del 1929, stimolando il mercato, mentre sempre negli stessi anni la Dupont impose ai propri ricercatori d’indebolire una sostanza da loro inventata, il nylon, perché le calze da donna fatte di questo materiale duravano troppo e danneggiavano il mercato.
Obsolescenza informatica
La seconda guerra mondiale e il boom economico misero in sordina il problema che si è riproposto negli ultimi trenta anni. Con molti prodotti, infatti, si è arrivati alla saturazione di mercato. Tutti abbiamo un frigorifero, una lavatrice, addirittura due auto, ora anche il computer è un oggetto comune, due cellulari – in Italia per tutti gli abitanti neonati compresi – e il mercato è quindi solo quello della sostituzione.
Per cui gli oggetti si devono rompere. Ecco allora che con l’ausilio della progettazione computerizzata e della conoscenza dei materiali si “programma” il destino degli oggetti. Questi sistemi consentono di individuare con esattezza la tipologia, la quantità e la qualità della materia da utilizzare in un prodotto, programmandone la fine. E l’informatica ha peggiorato la situazione.
Alcuni apparecchi possiedono un sistema di controllo interno, ossia un computer, possono decidere di aver esaurito dei componenti, come le cartucce delle stampanti, dopo un preciso numero di operazioni. Oppure nel caso dei dispositivi portatili si sta diffondendo una progettazione che impedisce la sostituzione della batteria, che è spesso il componente a più rapido degrado il cui malfunzionamento rende obsoleto un apparecchio che magari, batteria a parte, non possiede difetti.
Per avere maggiori informazioni e per leggere alcuni esempi di prodotti tecnologici soggetti a obsolescenza programmata vi consiglio di leggere il mio articolo: Obsolescenza programmata: lampadine, smartphone e stampanti.
La nuova obsolescenza psicologica
E fino a ora abbiamo parlato i obsolescenza programmata tecnologica, ma ce ne è anche un’altra, forse ancora più subdola. È quella psicologica. Si tratta di un’obsolescenza tecnologica certo, visto che sono sempre i materiali a cedere, ma che riguarda aspetti marginali per il funzionamento dell’oggetto che continua a svolgere il suo lavoro, ma che sono studiati appositamente per far perdere fiducia da parte dell’utente verso il suo oggetto.
L’automobile è caso classico. La rottura sistematica o il degrado di particolari componenti non vitali, ci mancherebbe, come le maniglie, le fodere dei sedili, i fari, il cruscotto, la verniciatura che avvengono in serie dopo un certo numero di chilometri o anni, inducono alla sfiducia verso l’autovettura da parte del proprietario che diventa così ben disposto dopo poco tempo a cambiare un’auto che, magari, fa bene il proprio dovere essenziale: muoversi.
Per fare ciò si usano le plastiche al posto del vetro o del metallo. I polimeri, ossia le molecole che formano le plastiche infatti, sono in gran parte “sensibili” agli agenti atmosferici e ai raggio solari. Ed ecco che il loro utilizzo, in condizioni avverse, ne provoca il degrado e visto che un’auto vive e lavora all’esterno diventa quasi scontata l’usura precoce, ossia l’obsolescenza programmata. Ancora una volta.
Altro aspetto legato all’obsolescenza programmata psicologica è quella delle prestazioni dei dispositivi elettronici. Spesso si viene indotti a cambiare televisori, smartphone e computer, perché vengono pubblicizzate nuove e mirabolanti prestazioni del nuovo apparecchio, magari solo teoriche.
Un caso per tutti: i televisori da alta risoluzione, l’ultima oltre l’HD si chiama 4K, ma già si parla di 8K. Dettagli tecnici a parte, infatti, ciò che salta agli occhi è il fatto che esistono molti apparecchi televisivi a 4K ma poche emittenti che sfruttano questa tecnologia e oltretutto in maniera sporadica e sperimentale.
E qui mi fermo, anche perché andando avanti caso per caso, potremmo scrivere un libro, oppure un eBook. Ma un consiglio sulla questione è possibile. Non c’è fretta nel cambiare il proprio televisore HD, destinando un apparecchio funzionante alla discarica, per avere il medesimo risultato con un TV 4K. Meglio aspettare che arrivi l’obsolescenza programmata, ovviamente, sul fronte tecnico. Ossia che il vostro televisore arrivi al fine vita, programmato ovviamente. Portafoglio e ambiente ringraziano.
A cura di Sergio Ferraris