Le microplastiche non sono un problema che riguarda solo la fauna. Anche l’essere umano le “mangia”. Per l’esattezza, ne ingeriamo fino a 2.000 micro-frammenti a settimana, pari a 5 grammi, che corrispondono al peso di una carta di credito. In media, il quantitativo assunto equivale a più di 250 grammi l’anno.
Sono i dati che emergono dal recente studio No Plastic in Nature: Assessing Plastic Ingestion from Nature to People condotto dall’Università di Newcastle, in Australia, e commissionato dal WWF.
La plastica che mangiamo: lo studio del WWF
La ricerca è una revisione di cinquantadue studi preesistenti sul tema delle microplastiche. Secondo i dati emersi, ogni persona ingerisce mediamente 1.769 particelle di plastica ogni settimana solo bevendo acqua, imbottigliata o dal rubinetto. Le microplastiche sono infatti presenti nell’acqua di ogni angolo del mondo, a partire da quella superficiale fino alle falde. Le cifre variano ovviamente da Paese a Paese: i livelli di plastica nelle acque risultano per esempio più alti negli Stati Uniti o in India rispetto all’Unione Europea.
Gli alimenti che appaiono invece maggiormente contaminati sono i frutti di mare, la birra e il sale.
Inquinamento da plastica: le altre ricerche
Un precedente studio realizzato nel 2018 aveva già riscontrato la presenza di microplastiche in ben il 90% del sale da cucina. Su 39 campioni presi in esame, provenienti da diverse nazioni, 36 avevano evidenziato la presenza di frammenti di plastica. Tra questi anche del sale di origine italiana.
Ulteriori analisi condotte a livello globale hanno scoperto che le minuscole particelle di plastica sono identificabili pressoché in qualsiasi alimento: dalla carne di pollo al miele. Dalla scienza è inoltre emerso che le microplastiche che ingeriamo attraverso l’alimentazione derivano anche dalla polvere presente all’interno delle nostre case, che finisce inevitabilmente sui cibi che consumiamo.
Non c’è da stupirsi perciò che una ricerca condotta da parte dell’Università di Vienna in collaborazione con l’Agenzia per l’Ambiente austriaca, abbia rilevato la presenza di frammenti di plastica nelle feci umane. I polimeri più comuni sono risultati il polipropilene o PP, usato nei tappi delle bottiglie e nelle capsule del caffè, e il polietilene tereftalato o PET, uno tra i materiali più utilizzati per il confezionamento alimentare.
Microplastiche e salute
Ma quali conseguenze possono determinare questi frammenti di plastica presenti nel nostro corpo sul fronte della salute? Le indagini sui possibili effetti sono aperte e i dati scientifici attualmente disponibili sono ancora troppo limitati per sostenere affermazioni puntuali.
Fatto sta che i risultati emersi dallo studio australiano costituiscono un importante passo in avanti nel comprendere l’impatto dell’inquinamento da plastica sugli esseri umani. E, come dichiarato da Marco Lambertini, direttore internazionale del WWF, questi dati “devono servire da campanello d’allarme per i governi”.
Come ripetutamente sostenuto dall’associazione animalista, siamo ancora in tempo per cambiare rotta. Ma l’azione contro l’inquinamento da plastica deve essere rapida e concreta. Ne vale il futuro del Pianeta.