Impronta idrica e consumo reale di acqua – Consumiamo molta più acqua di quella che vediamo. Ognuno di noi ha bisogno, ogni giorno, di circa 2 litri di acqua per dissetarsi, 30-50 per l’uso domestico (cucinare, lavarsi, etc.) e di diverse migliaia di litri di acqua al giorno per mangiare. Perché?
La produzione di qualsiasi tipo di bene agricolo – quindi anche di cibo – si fonda sul processo di evapotraspirazione, cioè del passaggio dell’acqua dal terreno all’aria per effetto della traspirazione dalle piante e dell’evaporazione dal suolo. A determinare la quantità di acqua coinvolta in questo processo, concorrono molti fattori tra cui quelli climatici (ad esempio, temperatura, piovosità, vento, radiazione), le caratteristiche del suolo, il tipo di coltura, la tecnica agricola. Poiché l’acqua coinvolta nel processo di crescita di una coltura (il grano, ad esempio) non è più visibile all’interno del bene (pane), è stata chiamata acqua virtuale.
Il termine acqua virtuale è stato coniato dal geografo inglese Prof. Tony Allan nei primi anni 90 e il suo articolo in cui è comparso il termine per la prima volta è “Fortunately there are substitutes for water otherwise our hydro-political futures would be impossible”, “Priorities for water resources allocation and management”, ODA, London, pp. 13-26 (1993).
A partire dal concetto di acqua virtuale è stata elaborata l’impronta idrica, un indicatore del consumo di acqua lungo tutte le fasi della filiera di produzione di un bene (coltivazione, trasformazione, confezionamento, trasporto, distribuzione). Poiché la coltivazione è la fase più esigente dal punto di vista idrico, quando si parla di impronta idrica ci si concentra in particolare sui beni agricoli. L’agricoltura assorbe circa il 70% del totale dell’acqua dolce presente sul pianeta che preleviamo e fino al 90% in paesi molto aridi, entrando in competizione con altri tipi di uso (domestico, industriale).
Impronta idrica: come si calcola
L’impronta idrica si calcola considerando l’acqua utilizzata per la produzione di un bene in modo diretto e indiretto. Ad esempio, per la produzione di un jeans di cotone non basta considerare l’acqua necessaria alle fasi di lavorazione o colorazione del tessuto, ma includendo l’acqua che è stata necessaria a produrre il cotone, cioè la materia prima del jeans. E’ in questo modo si arriva ad un’impronta idrica pari a 8.000 litri per un paio di jeans.
A livello individuale, il consumo di cibo rappresenta il 90% del nostro consumo di acqua. In una tazzina di caffè sono nascosti 132 litri di acqua, in un bicchiere di latte 250, in un kg di carne di manzo oltre 15.000 (dati Water Footprint Network). Quest’acqua inoltre non è tutta uguale: in climi umidi, la produzione di cibo avviene senza necessità di ricorrere all’irrigazione ed è legata quindi a risorse da precipitazioni (acqua verde). Al contrario, in climi più aridi o nelle stagioni più secche dell’anno, ad esempio in un clima mediterraneo, l’irrigazione è essenziale per sopperire alla mancanza di umidità e l’acqua utilizzata è prelevata da fonti sotterranee e/o superficiali (acqua blu). L’impronta idrica ha quindi due componenti: l’impronta idrica verde e l’impronta idrica blu, a cui si aggiunge l’impronta idrica grigia, che misura l’inquinamento idrico causato dal processo produttivo.
Se volete calcolare subito, anche se con una certa approssimazione la vostra impronta idrica, potete utilizzare l’apposito calcolatore online disponibile sul sito www.waterfootprint.org
L’impronta idrica varia non soltanto in funzione del tipo di prodotto (ad esempio, i prodotti di origine animale hanno un’impronta idrica molto più elevata di quelli di origine vegetale), ma anche del luogo e del momento in cui è avvenuta la produzione di quel bene. L’impronta idrica delle pesche nettarine prodotte in Italia è pari a 450 litri/kg, mentre sono necessari 1.120 litri/kg in Cina (dati Water Footprint Network). Nell’uno e nell’altro caso inoltre a variare sarà anche il volume di acqua proveniente da agricoltura irrigua (blu) o non irrigua (verde). Perché è importante distinguere il colore dell’acqua nell’impronta idrica dei prodotti che consumiamo? Perché i due tipi di agricoltura hanno impatti profondamente diversi sull’ambiente. Le pratiche irrigue consentono un aumento della resa agricola, ma sono generalmente associate alla salinizzazione e alcalinizzazione del terreno, l’impoverimento delle falde, il peggioramento della qualità dell’acqua.
La nostra impronta idrica varia con la nostra dieta. Quella di un cittadino di Milano è di circa 5.600 litri di acqua al giorno, a causa di un consumo elevato di zuccheri, oli vegetali, carne e latticini (dati Vanham & Bidoglio). La nostra impronta idrica come italiani ci fa guadagnare il quarto posto per il più elevato consumo individuale, dopo USA, Grecia e Malesia. Il 51% di quest’acqua inoltre arriva dall’estero per mezzo del commercio internazionale che è anche un “commercio di acqua virtuale”(dati WWF Italia). L’importazione di cotone da paesi vulnerabili dal punto di vista idrico come Egitto, Pakistan, India, contribuisce a peggiorare le condizioni di scarsità della risorsa.
Si chiama acqua virtuale perché non la vediamo, ma il suo impatto è più che reale.
Impronta Idrica: il mio libro
Dal 2008 mi occupo di sostenibilità legata alla gestione dell’acqua, all’agricoltura, alle politiche alimentari e al commercio internazionale.
Dopo un master presso la School of Oriental and African Studies di Londra, ho conseguito un dottorato in geografia presso il King’s College London con una tesi sul commercio di acqua virtuale in Medio Oriente e Nord Africa.
In questi anni ho lavorato con il Swiss Federal Institute for Aquatic Science and Technology, il Centro Euro Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici, l’Università IUAV di Venezia, l’Università Roma Tre, il Barilla Centre for Food and Nutrition.
Dopo tanti anni di studi, nel 2013 ho cercato di mettere a frutto quanto appreso, co-curando il volume “L’acqua che mangiamo”, pubblicato da Edizioni Ambiente.
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