“Deperimento della foresta fluviale amazzonica: cause e conseguenze” è il quinto articolo frutto della collaborazione tra la Sezione Valorizzazione della Ricerca e Public Engagement – Agorà Scienza – e dal Green Office UniToGO dell’Università di Torino con la IdeeGreen S.r.l. Società Benefit.
L’articolo riprende i testi del dr. Tommaso Orusa pubblicati nell’opera “Lessico e Nuvole: le parole del cambiamento climatico”, la seconda edizione della guida linguistica e scientifica per orientarsi nelle più urgenti questioni relative al riscaldamento globale, curata dalla Sezione e dal Green Office.
La versione gratuita di Lessico e Nuvole, sotto forma di file in formato .pdf, è scaricabile dalla piattaforma zenodo.org.
La versione cartacea è acquistabile online sulle seguenti piattaforme di distribuzione:
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Tutto il ricavato delle versioni a pagamento sarà utilizzato dall’Università di Torino per finanziare progetti di ricerca e di public engagement sui temi dei cambiamenti climatici e della sostenibilità.
La foresta amazzonica
La foresta pluviale amazzonica è la più grande foresta pluviale del mondo. Comprende nove paesi del Sud America ed è uno dei principali hotspot di biodiversità a livello di ecosistema terrestre.
La foresta pluviale è sostenuta da condizioni di umidità tali per cui essa stessa gioca un ruolo fondamentale nella regolazione del suo clima e del ciclo idrologico. In tale bioma la foresta si è insediata talora su suoli molto antichi, spesso privi di elementi essenziali alla vita delle piante; pertanto la sostanza organica e la rapida mineralizzazione in tale ambiente rivestono un ruolo fondamentale per il mantenimento di tale ecosistema e del suo stato apparente stazionario. Si tratta a tutti gli effetti di una foresta che si “autoalimenta” e in cui l’evapotraspirazione riveste un ruolo centrale nel mantenimento di questo delicato e complesso ecosistema forestale. Questi processi mantengono l’atmosfera umida, ma aiutano anche a guidare la convezione (forte movimento verso l’alto dell’aria) che, alla fine, crea nuvole e precipitazioni.
Negli anni Settanta del secolo scorso diversi studi hanno mostrato che l’Amazzonia genera circa la metà delle proprie precipitazioni. Il risultato è che la riduzione della quantità di pioggia o un cambiamento d’uso del suolo – accompagnato dalla deforestazione in assenza di una gestione forestale sostenibile – può significativamente alterare il clima di questo luogo, spostandolo in uno stato più secco che non è più in grado di sostenere una foresta pluviale, ma piuttosto una savana. Per tale ragione – e a seguito del ruolo che più in generale le foreste hanno nella regolazione del clima come componenti del sistema climatico – le alterazioni di superficie e/o le risposte ai cambiamenti climatici rendono questo particolare bioma un tipping point, oggetto di monitoraggio al pari di altri ecosistemi forestali. Va considerato anche il fatto che le foreste, oltre all’azione di mitigazione dei cambiamenti climatici offerta, sono un importante riserva di carbonio.
Cause del deperimento della foresta amazzonica
Sono individuabili tre cause di spostamento oltre il “punto critico” per la foresta amazzonica cioè il passaggio da una zona sicura a una a rischio nel comportamento del sistema (per maggiori informazioni potete consultare il lemma Punti critici di “Lessico e Nuvole”).
La prima è un calo delle precipitazioni in risposta al riscaldamento del clima. Le proiezioni suggeriscono che questo sarebbe il risultato di variazioni della temperatura della superficie del mare nell’Atlantico tropicale e nel Pacifico, anche se sono grandi le incertezze tra i vari modelli riguardo all’intensità dell’impatto sull’Amazzonia.
La seconda è una ridotta evapotraspirazione in risposta a una maggiore concentrazione di diossido di carbonio (CO2). Infine, la terza causa sarebbe l’impatto diretto della deforestazione e cambio d’uso del suolo: meno alberi significano meno evapotraspirazione e meno umidità che entra nell’atmosfera.
Una variazione del clima locale spingerebbe la foresta pluviale a non essere più in grado di autosostenersi. Oltre questo punto, la foresta andrebbe verso un diffuso deperimento e transizione alla savana: un ecosistema più secco dominato da praterie aperte con pochi alberi.
Ad oggi la deforestazione e gli incendi contribuiscono a raggiungere il punto critico e l’ipotesi è suffragata da simulazioni di vari modelli climatici e forestali. Una foresta frammentata è più sensibile alla riduzione delle precipitazioni causata dal riscaldamento globale. Studi di lungo termine sul microclima post-deforestazione su vaste aree soggette a taglio raso, sembrano suggerire come da un micro-clima molto umido si passi rapidamente a uno più secco, con una stagione secca molto più lunga. Secondo una ricerca pubblicata sulla rivista Science da Nobre et al. nel 1990, e senza considerare l’effetto del riscaldamento globale, un punto critico per il deperimento della foresta pluviale Amazzonica potrebbe essere raggiunto se si superasse il 40% dell’area totale deforestata. In questo scenario, circa il 60-70% della foresta amazzonica si trasformerebbe in una savana secca, soprattutto nell’Amazzonia meridionale e settentrionale, aree che a oggi confinano con le savane. Solo l’Amazzonia occidentale, vicino alle Ande, sarebbe risparmiata in quanto molto piovosa e per questioni di vicinanza orografica. Nel 2019 Nobre et al. e altre ricerche stimano che finora circa il 17% della foresta pluviale amazzonica sia stata soggetta a cambio di destinazione d’uso del suolo, principalmente per l’allevamento di bestiame e le piantagioni di soia.
Sebbene i tassi di deforestazione siano rallentati all’inizio del XXI secolo, di recente sono aumentati.
Nell’Amazzonia brasiliana, ad esempio, la rimozione degli alberi è diminuita di due terzi tra il 2005 e il 2011, ma il 2018 ha visto i tassi annuali salire ai livelli più alti in un decennio. Nel 2019, la deforestazione è nuovamente aumentata, con tassi superiori dell’85% rispetto al 2018. I Rapporti Annuali sullo Stato delle Foreste globali della FAO suggeriscono che un cambiamento nella politica sotto il presidente brasiliano Bolsonaro sta incoraggiando lo sviluppo, a scapito della foresta pluviale e delle risorse idriche future (servizio ecosistemico fornito dalla foresta pluviale), a fronte di una maggiore richiesta per l’incremento demografico.Il cambiamento climatico unitamente al cambio d’uso del suolo con l’uso diffuso del fuoco per la pratica agricola sembrano avvicinare il punto critico. Appare necessario, piuttosto, ricostruire un margine di sicurezza riducendo l’area deforestata a meno del 20%.
Una nuova ricerca pubblicata su Nature Communications da Cooper et al. 2020 suggerisce che, una volta superato il punto critico, la foresta pluviale amazzonica potrebbe diventare una savana entro circa 50 anni. Questo risultato, che si basa su un modello empirico come suggerito dagli stessi autori, è ampiamente in linea con le proiezioni di molti modelli forestali e a scala climatica locale.
Conseguenze della perdita della foresta pluviale amazzonica
L’impatto della perdita della foresta pluviale amazzonica si farebbe sentire a livello locale e globale. Oltre a essere una catastrofe ecologica per la flora e fauna selvatica, il danno socio-economico alla regione potrebbe ammontare tra gli 0,9 e i 3,6 trilioni di dollari in un periodo di 30 anni, secondo una stima prudenziale presentata accanto alla ricerca.
L’evapotraspirazione ridotta e la convezione ridotta altererebbero la circolazione atmosferica in tutto il mondo. Il deperimento della foresta amazzonica renderebbe anche più difficile affrontare il cambiamento climatico attraverso azioni di mitigazione ed adattamento, infatti, l’aumento del rilascio di CO2 durante gli incendi boschivi seguito dalla moria degli alberi accelererebbe l’aumento di CO2, e con la scomparsa della foresta avremmo anche perso un importante serbatoio di carbonio, il che significherebbe la necessità di tagli sempre più profondi delle emissioni per fermare l’aumento del CO2 atmosferico. Vi sono già profondi cambiamenti in Amazzonia, affermano Lovejoy e Nobre in un contributo di Science Advances pubblicato a dicembre 2019: «le stagioni secche nelle regioni amazzoniche sono già più calde e più lunghe e frequenti. I tassi di mortalità delle specie a clima umido sono aumentati, mentre le specie a clima secco mostrano resilienza. La crescente frequenza di siccità senza precedenti nel 2005, 2010 e 2015/16 sta segnalando che il punto critico appare tristemente vicino».
Il quinto rapporto di valutazione dell’IPCC (“AR5”) descrive il deperimento delle foreste tropicali e pluviali come “potenzialmente improvviso” ma “reversibile entro secoli”. Mentre in un recente articolo sulla “visione del mondo” di Nature, Nobre scrive che un recupero da un punto critico dell’Amazzonia sarebbe “probabilmente impossibile” e, semmai fosse. Realizzabile, sarebbe comunque troppo lenta, senza aggiungere l’erosione senza precedenti della biodiversità.
dott. Tommaso Orusa, borsista di ricerca presso Unito Green Office Energia e Cambiamenti climatici e dottorando al GEO4AGRI presso il Dipartimento di Scienze, Agrarie Forestali e Alimentari dell’Università degli studi di Torino
Fonte immagine di apertura: Wikipedia
Bibliografia
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