Oggi si sente molto parlare di case di buon vicinato come alternativa al tradizionale cohousing sociale, ma cosa c’è di diverso? Praticamente niente se si guarda ai vantaggi, le differenze semmai riguardano l’approccio alla gestione dell’edificio nelle sue parti comuni: più rigido nel cohousing e un po’ meno nelle case di buon vicinato.
Diciamo che una casa di buon vicinato è una costruzione dove il compito di aiutare le persone a stare bene insieme è delegato soprattutto alle forme della bioarchitettura, alle soluzioni e ai materiali, ma dove gli abitanti mantengono una certa indipendenza. Nel cohousing prevale invece di solito l’aspetto sociale e la condivisione di valori comuni legati ad abitudini collettive, come avviene per esempio nei gruppi di acquisto solidale.
Il cohousing esiste da abbastanza tempo in Italia e nel mondo (l’origine viene fatta risalire al 1964 con l’architetto danese Gødmand Høyer) da essere diventato un concetto ben definito anche su Wikipedia. Diverso il caso dei villaggi o delle case di buon vicinato, che sono invece uno ‘stile del costruire’ più che un fenomeno sociale codificato. Ciò che accomuna cohouser e buoni vicini è il desiderio di uno stile di vita più sostenibile, dal punto di vista ecologico ed economico, basato sulla possibilità di aiuto reciproco anche fuori dal contesto familiare.
La casa di buon vicinato di oggi assomiglia più del cohousing alla cascina di una volta (presente con nomi diversi in tutta l’Italia) dove diverse famiglie non necessariamente imparentate vivevano in case private condividendo gli spazi comuni e le spese di alcuni servizi. La vicinanza e la forma dell’edificio permettavano di conoscersi, i bambini giocavano insieme e i genitori li accudivano a turno, la legna per la stufa la si comprava insieme così costava di meno.
La casa di buon vicinato più del cohousing attribuisce importanza alle forme dell’architettura, da sempre collegate al tipo di socialità che si vive. Si pensi alle ville romane, segno di opulenza potente; si pensi ai castelletti sulle cime delle colline, luoghi di socialità autarchica e autodifesa. E ancora alle città romane dalle larghe semplici vie con gli incroci ad angolo retto e invece alle città medievali con il reticolo di strette vie a raggiera da un centro alle mura che le cingevano. Anche nelle case di buon vicinato, che rispecchiano le esigenze economiche sociali di oggi, le forme sono indispensabili per garantire aggregazione così che il buon vicinato nasca spontaneo e quindi solido, non necessariamente da un precedente percorso insieme.
Dove sono gli esempi di casa di buon vicinato? Le realizzazioni di cohousing sono numerosissime in Italia e nel mondo e c’è il sospetto che si tenda ad abusare di questa definizione per mascherare insediamenti edilizi che in realtà di ecologico e sociale hanno poco. Per trovare case di buon vicinato, definizione non ancora codificata, bisogna invece aguzzare la vista. Un caso è il Villaggio ViBRE di Casatenovo (Lecco) di cui parliamo in questo articolo.