Il progressivo scioglimento dei ghiacci nella cosiddetta “Via della Seta Polare” incentiva la politica espansionistica di Putin con l’introduzione dell’unica centrale galleggiante al mondo, ancorata nel porto della città artica di Pevek, in Chukotka. Uno strumento sia geopolitico (controllo territoriale strategico) che economico (estrazioni di gas, petrolio e minerali preziosi) a dir poco fondamentale ma che potrebbe trasformarsi in una Chernobyl galleggiante mettendo a rischio un ecosistema già di per sé fragilissimo.
Dove si trovano Pevek e la Chukotka
La Chukotka è una penisola ai confini del mondo; una regione aspra e inospitale, situata nel punto più orientale della Russia. Oltre la tundra sconfinata, dove vivono le popolazioni indigene dei chukchi e gli eschimesi, spunta la Pevek, la città più settentrionale della Russia, situata oltre il Circolo Polare e bagnata dalle acque del Mare della Siberia orientale.
Pevek era un tempo denominata il “Gulag Sovietico” in quanto sfruttata a partire dai primi anni del ‘900 per la “rieducazione” dei prigionieri costretti a lavorare nelle numerose miniere presenti sul territorio (Uranio, Carbone, oro, argento, rame, litio e altri metalli). Quest’area è soggetta al regime speciale di zona di confine, militarizzata e posta sotto la stretta sorveglianza dei servizi di sicurezza Russi (FSB): l’intero territorio della Chukotka affacciandosi sullo stretto di Bering e quindi guardando all’Alaska, costituisce un importante tassello geopolitico nei rapporti tra Russia e Stati Uniti.
La centrale nucleare galleggiante nel porto di Pevek
Un anno fa, nel porto di Pevek, ha attraccato la gigantesca chiatta Akademik Lomonosov, sormontata da una centrale nucleare alimentata da un reattore relativamente piccolo.
Si tratta dell’undicesima centrale atomica russa e della prima unità nucleare mobile mai entrata in attività. L’idea dell’energia nucleare “portatile” non è di per sé innovativa, in quanto circolava già negli anni Sessanta, ma sia Russia che Stati Uniti la ritenevano molto rischiosa e costosa. Questo non ha fermato Putin, il quale nei primi anni 2000 ha richiesto all’azienda russa Rosatom di costruire una vera e propria flottiglia da ancorare nei porti lungo la cosiddetta Northern Sea Route. Il Cremlino e Rosatom hanno annunciato che soltanto in Chukotka entreranno in azione altre cinque centrali (due entro il 2024).
Gli interessi economici e politici in gioco nella Chukotka
Un segno alquanto evidente di come le ambizioni di Putin per l’estremo oriente della Russia stiano prendendo progressivamente forma.
Da un lato, la presenza di un reattore nucleare permetterebbe di avere un mezzo più “ecologico” dei combustibili fossili per la produzione di energia. Dall’altro, costituisce un’abile mossa da parte di Mosca per sfruttare il cambiamento climatico e quindi il progressivo scioglimento dei ghiacci per aprire una grande via di navigazione attraverso l’Artico, potendo così controllare il traffico marittimo e attingere alle vaste ricchezze artiche di petrolio, gas e minerali preziosi.
La completa apertura di questa rotta marittima è prevista entro la metà del decennio. Infatti Putin e Rosatom, volendo accelerare questo processo, hanno deciso di impiegare navi rompighiaccio a propulsione nucleare capaci di aprire la navigazione artica.
I vantaggi economici della centrale galleggiante secondo Rosatom
Secondo Rosatom, sono numerosi i vantaggi derivanti dalla presenza dell’Akademik Lomonosov. Uno dei principali vantaggi della costruzione è economico poiché, dopo essere stata attraccata, la chiatta da 21.000 tonnellate sostituirà una vecchia centrale nucleare terrestre per fornire elettricità a 50.000 persone della zona.
Non solo produrrà energia per la regione artica coperta dai ghiacci, dove gli abitanti hanno difficoltà ad accedere alle fonti di energia tradizionali, ma dopo il successo la tecnologia potrebbe essere esportata in altri paesi con condizioni climatiche difficili, aiutando molti altri. Un altro vantaggio è la natura flessibile della struttura, che permette di dispiegare in ambienti remoti e di tenerla lontana dai centri popolati in caso di incidenti.
Secondo Rosatom, la Lomonosov consiste in un’unità energetica dotata della più recente tecnologia di sicurezza nucleare e utilizza la stessa tecnologia di costruzione dei rompighiaccio nucleari e delle navi marine, rendendola adatta all’uso in condizioni difficili. Il terzo vantaggio di questa tecnologia è l’effetto ambientale positivo che può portare, liberando i quattro milioni di abitanti che vivono nel territorio della Federazione Russa dalla completa dipendenza dal carbone e dal petrolio come fonti di energia.
Il passaggio all’energia nucleare più pulita prodotta nelle vicinanze può contribuire positivamente al mix energetico pulito russo e ridurre l’impatto negativo dei combustibili fossili sull’ambiente, che hanno dimostrato di danneggiare gli ecosistemi in particolare nella zona artica. Anche se la produzione commerciale di tali reattori non è ancora stata raggiunta, Rosatom ritiene che il sistema potrebbe un giorno essere venduto commercialmente, soprattutto ai paesi insulari perché può essere utilizzato per alimentare impianti di desalinizzazione per territori con carenza di acqua dolce.
I potenziali rischi sull’ecosistema della centrale galleggiante
Nonostante gli effetti positivi evidenziati dal governo russo e da Rosatom, gli esperti nucleari hanno evidenziato aspetti negativi cruciali che mettono in dubbio il progetto di una centrale nucleare galleggiante.
Jan Haverkamp, esperto senior di energia nucleare e politica energetica di Greenpeace Olanda, vede i tre principali svantaggi della Akademik Lomonosov come il grande rischio di perdite umane sul lavoro, la sua costruzione problematica e l’inquinamento della regione artica con scorie nucleari.
Per cominciare Haverkamp sottolinea che l’area remota in cui si trova il reattore nucleare richiede una grande quantità di persone che sfidano le condizioni meteorologiche per arrivarci. “È già una sfida mantenere i lavoratori motivati e soddisfatti mentre lavorano nelle centrali nucleari in luoghi remoti, ma facili da raggiungere con un aereo o un collegamento ferroviario”, dice, sottolineando che viaggiare quotidianamente nell’Estremo Oriente russo aumenta il fattore di rischio a un livello “paragonabile al ambito bellico “.
Insieme a questo, se qualcosa va storto, è molto difficile arrivare lì e correggere le cose, “molto più difficile di quanto lo sia stato a Fukushima inviando le auto dei vigili del fuoco con un terremoto che aveva distrutto tutte le infrastrutture”. Haverkamp fa anche notare che pone un rischio per la sicurezza, perché per permettere al reattore di essere abbastanza leggero da rimanere galleggiante si dovrebbero eliminare alcune delle caratteristiche di sicurezza solitamente presenti su un reattore terrestre.
“Non può essere sfruttata la cosiddetta end-of-the-pipe technology, fondamentale per ridurre i rischi di sicurezza e non ci può essere una cupola di cemento sopra di essa come abbiamo sopra le centrali nucleari terrestri”, aggiunge, perché ciò aumenterebbe il rischio che la chiatta affondi.
Il terzo punto che Haverkamp evidenzia è che anche se questo reattore nucleare potrebbe sembrare più ecologico dei combustibili fossili, in realtà non lo è. Il piano Akademik Lomonosov prevede che il reattore resti in mare per 12 anni. “Questo significa che il combustibile deve essere cambiato circa quattro volte, in questo tempo il combustibile usato, che è altamente tossico, rimarrà a bordo prima di essere spedito via e sostituito con combustibile fresco”, dice Haverkamp. Questo porta a una grande preoccupazione ambientale che Greenpeace prende in considerazione ossia al fatto che questo progetto stia introducendo un grande rischio di inquinamento in una zona che funziona come regolatrice del clima per l’intero globo.
La spedizione The Climate Route
La Chukotka è stata scelta dall’APS The Climate Route come punto di arrivo di una lunga spedizione di divulgazione scientifica sui cambiamenti climatici. Un percorso lungo ben 18.000 km dal Ghiacciaio della Marmolada (Trento), ad Uelen (Chukotka), fino ad attraversare lo stretto di Bering per terminare il viaggio in Alaska.
Il gruppo di attivisti coinvolti documenterà ogni singola tappa della spedizione al fine di dimostrare che il cambiamento climatico è un fenomeno che colpisce tutti: nessuno escluso.
Per poter realizzare il progetto di The Climate Route è da pochi giorni online, sul sito www.produzionidalbasso.com, la campagna crowdfunding intitolata “The Documentary Route: 18.000 km per il clima”.
Se desiderate sostenere il progetto per la realizzazione del viaggio e del documentario potete fare una donazione, anche di modico importo, fino al prossimo 13 febbraio.
A cura di Stefano Cisternino, europrogettista e giornalista sociopolitico.